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“Io sono Joy”, terribile storia di una donna-schiava

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La Befana dovrebbe portare a tante donne un numero di cellulare come quello che ha ricevuto Joy, la cui storia viene raccontata attraverso il libro “Io sono Joy – un grido della schiavitù della tratta” di Mariapia Bonanate (ed. San Paolo), con la prefazione di Papa Francesco. ”Ho accolto volentieri l’invito a scrivere questa breve prefazione, con il preciso intento di consegnare ai lettori la testimonianza di Joy come patrimonio dell’umanità”, scrive Papa Francesco, che si rivolge al lettore con questa domanda: “Dal momento che sono innumerevoli le giovani donne, vittime della tratta, che finiscono sulle strade delle nostre città, quanto questa riprovevole realtà deriva dal fatto che molti uomini, qui, richiedono questi ‘servizi’ e si mostrano disposti a comprare un’altra persona, annientandola nella sua inalienabile dignità? Nella lettura di questo memoriale siamo portati a scoprire pagina dopo pagina, quanto la testimonianza di Joy ci inchiodi dinanzi ai pregiudizi e alle responsabilità che ci rendono attori conniventi di questi avvenimenti”.

Francesco richiama all’importanza della fede in Dio, che salva dalla disperazione, e della comunità, quella della “Casa di Rut” in cui Joy è stata accolta. Ha 23 anni quando a Benin City, in Nigeria, viene convinta da un’amica a partire per l’Italia con la promessa di un lavoro con il quale potrà mandare denaro alla sua famiglia e proseguire gli studi, ma già dopo poche ore si rende conto della trappola in cui è caduta: la drammatica traversata del deserto, i campi di detenzione libici, lager nei quali donne, bambini e uomini subiscono violenze, abusi, torture, orrori indescrivibili, la traversata sul barcone alla deriva, il salvataggio, l’accoglienza al centro di Bari dove respira vita e speranza. Qui, con molta freddezza, la viene a prendere la mamma della sua amica che la porta a Castel Volturno e da quel momento lei sarà Jessica, seguendo il destino di molte donne schiavizzate da persone senza scrupoli, il ricatto di riti Woodo, minacce alla famiglia in Nigeria, il ritiro dei documenti, il cambio del nome, per annientare la propria identità, un debito da pagare di 35 mila euro.

Racconta Joy: “Tua figlia in Nigeria mi ha convinto a venire in Italia per tenerti compagnia, perché eri molto sola e avevi bisogno di avere qualcuno accanto. Diceva che saresti stata contenta in questo modo di aiutare la mia famiglia. Mi avresti trovato un lavoro, avrei potuto fare le treccine o lavorare al computer, frequentare la scuola per finire i miei studi”. La donna e la sorella si misero a ridere fragorosamente, mentre il fratello usciva dalla stanza. Quella che doveva essere la sua seconda mamma, d’ora in poi sarebbe stata la sua “madam”. Il suo luogo di lavoro per un anno fu la via Domiziana, rimasta incinta fu fatta abortire. Dopo sofferenze, umiliazioni, tradimenti e false speranze, alla fine il cellulare di un ragazzo africano che collabora con la polizia, ma lei aveva motivi per non fidarsi più neanche della polizia.

Alla Questura di Caserta finisce l’incubo: “Mi chiamano Jessica, ma il mio nome è Joy”. Sulla soglia dell’appartamento dove la portò la polizia c’era una donna, le braccia conserte, un sorriso buono negli occhi azzurri: “Benvenuta. Hai mangiato? Vuoi fare una doccia? Vieni con me”. Nella cucina c’erano altre due donne con lo stesso sorriso: “Io sono sister Rita e loro sono sister Assunta e sister Nazarena”. Da quel giorno Joy si è ripresa il suo nome e la sua vera identità e ora lavora per la promozione e la vendita dei manufatti della cooperativa etnica di “Casa Rut”, fondata dalle Orsoline. Quando dovette testimoniare contro il medico che fece abortire lei e tante altre, aveva paura di essere riconosciuta dalla mafia nigeriana, ma sister Rita la rassicurò: “Non ti potranno riconoscere” e le fece ascoltare “Io non ho paura” di Fiorella Mannoia.

Sister Rita

Sister Rita è Suor Rita Giaretta, di origini vicentine, che ha raccontato questa storia, una fra mille altre, nel corso di un recente incontro di formazione per gli studenti, organizzato dalla Diocesi di Rieti, in collaborazione con il coordinamento scolastico provinciale, la Caritas diocesana, ufficio per la pastorale della salute, l’ufficio Migrantes della Chiesa di Rieti. Infermiera e sindacalista Cisl, Rita prende i voti a 29 anni nelle Orsoline del Sacro Cuore di Maria e seguendo l’esempio del Vangelo, è partita dalle piccole cose di tutti i giorni, tra la gente, scegliendo il territorio casertano, dove è stato ucciso don Peppino Diana, zona di sfruttamento dei migranti e delle donne, ridotte in schiavitù, ricattate e avviate alla prostituzione.

“Abbiamo preso un appartamento e abbiamo cercato di capire, chiedendoci da dove cominciare, dandoci il tempo per cambiare le cose. C’erano diverse donne in strada e l’8 marzo, che è una giornata in cui bisogna fare memoria, andammo a trovarle con la nostra vecchia Rover e una quarantina di piantine di primule: fu un contatto umano che quelle donne non conoscevano più. Prima di andare sul posto avvertimmo le forze dell’ordine: la nostra macchina è questa, con questa targa, siamo sul posto per aiutare. Ci guardarono tra lo stupito e l’indifferente, come a dire: ma che volete fare, siete suore, state al vostro posto. Fu un approccio lento e paziente fatto soprattutto di sorrisi, gentilezza, affetto, umanità. Negli anni è nata la Casa di Rut, un centro di accoglienza e di riscatto, in cui sono state accolte 600 donne e sono nati 80 bambini”.

Filomeno Lopes

Nel 2004 è nata la cooperativa sociale NewHope, sartoria etnica, con un sito di vendita, insieme alla Comunità dei Padri Sacramentini di Caserta, alcune donne immigrate e un gruppo di amiche e amici collaboratori. Le giornate a “Casa di Rut” sono all’insegna di una partecipazione attiva: ciascuna svolge i suoi compiti, recuperando la capacità di gestire la propria vita e di costruirsi un futuro. Dopo l’esperienza di “Casa Rut” a Caserta, sister Rita, insieme a sister Assunta ha fondato a Roma “Casa del Magnificat”, per le donne vittime di violenza domestica. Alla giornata di formazione su “Migranti e tratta delle donne” ha partecipato anche Filomeno Lopes, saggista e giornalista ghanese di Radio Vaticana.

“La bocca non mangia se i piedi non camminano: siamo tutti migranti su questa Terra – spiega Filomeno in perfetto italiano – ma lo ‘jus migrantes’ è riconosciuto solo al 20 per cento della popolazione mondiale. Non dobbiamo guardare con gli occhi della politica, ma della geopolitica e perché tante mamme lasciano andare i propri figli per dare loro la libertà di religione e di vita, impossibile nel proprio paese. Prima ancora del mare, il deserto è pieno di resti umani” spiega Filomeno che ha scritto i libri “Non amo i razzisti dilettanti” e “Una economia post razziale” con il professor Roberto Mancini, sull’essere cristiano-cattolico italiano, che non significa avere il rosario in mano. “Abbiamo due occhi e una bocca, attenzione a come la usiamo. Cultura e politica devono andare insieme”.

Francesca Sammarco

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