Si stava meglio quando si stava peggio.
Vero.
Un tempo, ogni cosa aveva un grande valore, persino la più piccola ed apparentemente insignificante.
Rappresentava il frutto di un duro lavoro, che veniva rispettato custodendola gelosamente anche quando avesse compiuto il proprio dovere.
Il denaro, poi, era molto meno presente nelle vite dei nostri nonni e quindi era abitudine consolidata, oltre che avere “devozione assoluta” per qualsiasi acquisto effettuato, anche utilizzarlo più e più volte nella funzione originaria o trovandone una sempre nuova.
Questo accadeva col cibo: nulla andava nei rifiuti, tutto veniva sapientemente ri-cucinato in piatti che – a tutt’oggi – sono di grande tendenza , facendo la fortuna di chef bravi soprattutto nel “copiare rivisitando”.
Ma era prassi consolidato pure con gli abiti. C’era quello della domenica e poi il vestito da indossare tutti gli altri giorni. Tutto qua. L’abito bello, come anche le scarpe, veniva poi lasciato in eredità ai figli minori, ai cugini alimentando quella economia circolare che già allora veniva praticata senza conoscerne l’importanza globale, solo spinti da una sensibilità personale.
In pochi decenni le cose sono rivoluzionariamente cambiate. La moda è monouso. Gli abiti low cost.
Indossiamo vestiti di pochissimo valore, ai quali – noi stessi – ne diamo molto meno, il cui futuro segnato è finire tra i rifiuti.
Pare che ogni anno vengano inceneriti oltre 12 milioni di indumenti usati (appena).
Ogni anno una persona consuma una media di 34 vestiti e ne butti via 14 chili.
Dal 1960 al 2015 si è registrato il record assoluto dei rifiuti tessili che ha toccato l’811%.
Da aggiungere, infine (come se non bastassero già questi numeri), che degli oltre 150 mila milioni di capi prodotti annualmente nel mondo più del 30% rimane invenduto e della parte rimanente oltre la metà finisce nei rifiuti.