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A Ravenna patrimonio artistico di sublime bellezza

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Sono tornato con grande piacere, dopo molti anni, a Ravenna per poter ammirare di nuovo i mosaici dell’arte paleocristiana. Incredibili esempi di un’arte sublime. Ho avuto ancor di più la conferma che, se è vero come è vero, l’arte è lo specchio dei popoli, quella paleocristiana è stata un’arte che ha evidenziato magistralmente il desiderio di comunicare la bellezza di ciò che qualche secolo prima si era incontrato. Ha espresso come sia possibile, incontrando qualcosa o Qualcuno di eccezionale, un popolo, un artista amasse dedicare la propria vita, il proprio lavoro nella testimonianza di ciò che viveva.

Guardando le opere presenti, dal Mausoleo di Galla Placidia al Battistero Neoniano, dal Mausoleo di Teodorico alla Basilica di San Vitale alla basilica di Sant’Apollinare in Classe o Sant’Apollinare Nuovo, insomma in ogni monumento respiravo un’aria carica di speranza, un’attenzione al dettaglio, una cura mai viste. Dal tassello disposto in una maniacale precisione ai marmi magistralmente tagliati e posti in una pavimentazione per testimoniare che tutto ha in origine un ordine.

Siamo tra il V e il VI secolo dopo Cristo; Ravenna è un punto di riferimento del mondo antico, la capitale dell’impero romano. Ravenna, nella sua storia è stata capitale tre volte: dell’Impero Romano d’Occidente (402-476), del Regno degli Ostrogoti (493-553) e dell’Esarcato Bizantino (568-751).

“[…] qui dove un’antica vita si screzia in una dolce ansietà d’Oriente”, scriveva Montale. Ravenna suggerisce questa ansietà, questa voglia di comunicare altro. Attraverso le opere si percepisce una storia, un popolo, una fede,… Ravenna non solo è capitale dell’impero romano, ma è testimone di una contesa tra correnti religiose come l’arianesimo, il pelagianesimo e il cristianesimo che, man mano, prende piede per l’oggettività di ciò che porta in grembo.

Alla base della tesi dell’arianesimo, permeata della cultura neoplatonica tanto in voga nell’ambiente ellenistico egiziano, v’era la convinzione che Dio, principio unico, indivisibile, eterno e quindi ingenerato, non potesse condividere con altri la propria ousìa, cioè la propria essenza divina. Di conseguenza il Figlio, in quanto “generato” e non eterno, non può partecipare della sua sostanza (negazione della consustanzialità), e quindi non
può essere considerato Dio allo stesso modo del Padre (il quale è ingenerato, cioè aghènnetos archè), ma può al massimo esserne una creatura: certamente una creatura superiore, divina, ma finita (avente cioè un principio) e per questo diversa dal Padre, che è invece infinito. Padre e Figlio non possono dunque essere identici, e il Cristo può assumere l’appellativo di “Figlio di Dio” soltanto tenendo in considerazione la sua natura creata, e non quella increata posta allo stesso livello di quella del Padre. Così facendo, Ario non negava di per sé la Trinità, ma la considerava costituita da tre diverse persone (treis hypostaseis) caratterizzate da nature diverse.

La verità del cristianesimo esplode proprio in quei tempi e la rappresentazione più vera dei testimoni che erano lì presenti si esalta attraverso una estensione memorabile di mosaici.

Siamo nel 548 d. C. e già in San Vitale, uno dei monumenti più importanti dell’arte paleocristiana, l’influenza orientale assume un ruolo predominante. Pianta ottagonale, doppio ordine in altezza con abside stupefacente. Pavimentazione in pietre policrome a rappresentare il labirinto (segno del percorso della vita di un uomo che si ritrova quando incontra e riconosce un bene). E così a seguire mosaici di una bellezza infinita, realizzati 1500 anni fa e così attuali per fantasie e splendore. Disegni geometrici o cieli stellati, simboli di fede e ornamenti decorativi. Tecniche sopraffine per dare chiaroscuro ai volti, alle immagini. Sembravano realizzazioni di qualche anno fa vista la modernità esecutiva, e invece frutto di sapienti lavorazioni di matrice orientale. Sempre al V secolo appartengono quasi tutti gli altri monumenti.

Una cosa mi colpisce nella cappella di Sant’Andrea, costruita dal vescovo Pietro II durante il regno di Teodorico; la cappella a pianta cruciforme preceduta da un vestibolo, entrambi rivestiti in mosaico e marmi perfettamente conservati che raffigurano la glorificazione di Cristo in chiave anti-ariana. Mi colpisce la raffigurazione di Cristo, unica nel suo genere, con armatura senza scudo ma in possesso, appoggiata sulla spalla, come un condottiero pronto per entrare in guerra, di una croce tenuta con la mano destra e con la mano sinistra un libro in cui sottolinea la verità di ciò che è la sua natura: “Ego sum Via, Veritas et Vita”, “Io sono la via, la verità, la vita”. Mai vista un’immagine tanto eloquente, tanto potente.

All’interno del Museo Arcivescovile un altro spettacolo: una cattedra vescovile che non è una scrivania come erroneamente pensavo ma un trono completamente in avorio di Massimiano e donata alla chiesa ravennate. Opera di artisti bizantini del VI secolo d. C. è una delle meraviglie che testimoniano come si possa comunicare attraverso l’arte la bellezza di una vita che tanti portavano dentro di loro.

Tutti i monumenti di Ravenna sono patrimonio dell’umanità, tutti i monumenti di Ravenna sono un patrimonio indiscusso segno di una fede certa e di una solidità raramente viste. Una storia di geni che rimanda alla vera Bellezza, alla più grande Bellezza.

Innocenzo Calzone

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