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IDEE POSSIBILI PER UN PIANETA MIGLIORE. LA PAROLA ALL’ARCHITETTO STEFANO BOERI

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di Stefano Boeri (ad-italia.it)

Aria pulita, città più verdi. Un uso diverso del tempo e del territorio, dove i piccoli borghi tornano a vivere in chiave contemporanea. E poi abitazioni a geometria variabile, camere da letto polifunzionali, tetti da vivere. I suggerimenti di un grande architetto per un futuro migliore.

ll periodo di emergenza Covid-19 è finito. Dobbiamo adesso chiederci se siamo disposti a rientrare in una normalità che ha però al suo interno – forse non le cause prime – ma certamente le concause di questa pandemia. Oppure se pensiamo di cogliere fino in fondo la potenza di questa tragedia e di provare a pensare a un modo diverso di abitare il pianeta, le città, gli spazi della vita quotidiana.

Io penso che chi fa il progettista, chi cioè lavora sull’anticipazione del futuro degli spazi abitati, dovrebbe provare a immaginare un futuro diverso, che io vedo non come una rivoluzione ma come un’accelerazione di tendenze già in corso. Partendo dagli spazi domestici, vedo tre grandi opportunità.

La prima è l’accentuazione del grado di autonomia delle camere da letto: una loro “monolocalizzazione” che le porti a diventare spazi attrezzati per svolgere più funzioni. Le camere da letto dovranno poter essere spazi di lavoro, d’incontro, in alcuni casi di alimentazione. Soprattutto pensando alle innumerevoli forme di coabitazione che abbiamo nelle aree metropolitane italiane: gli studenti, i businessmen, le famiglie che chiamano i genitori anziani, le badanti. Si apre un grande spazio alla progettazione di arredi “mutanti” che cambiando disposizione cambiano la geometria e l’uso dello spazio.

Una seconda accelerazione sarà relativa al crescente ruolo di epicentro collettivo dello spazio destinato ai riti dell’alimentazione. Salotto-cucina, tavolo-cucina, al centro di un’abitazione sempre più a geometria variabile, sarà espanso il più possibile e reso anch’esso polivalente rispetto all’interazione tra lo spazio del cibo e quello della convivialità.

Una terza tendenza sarà la possibilità di introdurre, sulla soglia tra pianerottolo e appartamento, uno spazio aerato. Una sorta di “neoveranda” che se necessario diventi autonoma dall’appartamento, oltre a svolgere una funzione di spazio di sanificazione, e che, quando non c’è urgenza diventi il punto in cui depositiamo e riprendiamo tutti quegli oggetti e dispositivi (oltre ai vestiti) che portiamo con noi quando usciamo di casa. Una soglia tra interno ed esterno che sarebbe opportuno spostare prima della porta di ingresso.

Un quarto aspetto, relativo all’intero edificio, è quello degli spazi aperti e del verde.

Naturalmente il mercato premierà le abitazioni con doppia o tripla esposizione al sole oltre che quelle con balconi, logge, terrazze abitabili. Ma non basta: gli edifici dovranno avere una maggiore estroversione sui piani terra (i negozi e non solo, i bar, i ristoranti occuperanno in modo stabile anche porzioni degli attuali marciapiedi) e soprattutto i tetti potranno essere resi abitabili in modo sistematico. I tetti, spazi semi-pubblici di pertinenza degli abitanti del caseggiato, svolgeranno in futuro il ruolo che nella città ottocentesca era svolta dai cortili. Diventeranno superficie utile per eventi collettivi, orti urbani, attività artigianali, scambi commerciali (le merci arriveranno sempre più dai droni e avranno come ingresso i tetti).

A livello dell’intero quartiere, credo sia oggi importante tornare a vivere gli spazi seguendo la logica di prossimità del Borgo Urbano. Non penso al borgo medioevale, ma a zone con un’autonomia di servizi che permetta a ciascuno di poter accedere al commercio minuto, alla scuola, ai servizi sanitari (quei servizi decentrati sul territorio che sono drammaticamente mancati nel periodo più aggressivo del contagio) entro un raggio geografico di 500 metri e un raggio temporale di 15/20 minuti. A piedi o al massimo in bicicletta.

Una città fatta di borghi urbani autosufficienti ciascuno dei quali però ospita anche una funzione di interesse generale, in modo da evitare forme di isolamento o eccessivo localismo. Dobbiamo più in generale renderci conto che siamo probabilmente al capolinea del paradigma della città moderna realizzato due secoli fa per funzionare attorno ad alcuni epicentri di vita collettiva sincronizzata sugli orari casa-lavoro, come le fabbriche, i mercati generali, le stazioni ferroviarie, i centri commerciali.

Per questo dobbiamo cambiare alle radici la logica e le sequenze della vita urbana.

Ecco cinque sfide da affrontare con urgenza alla scala dell’intera città.

La prima, non per importanza, ma per facilità, è appunto la de-sincronizzazione dei tempi di vita dei grandi attrattori di folle (scuole, edifici pubblici, sedi delle grandi aziende): luoghi che devono funzionare su ritmi diversi per evitare congestioni eccessive.

La seconda è la necessità di ripensare gli spazi aperti come luogo dove non solo il commercio e la mobilità ma anche la cultura, l’intrattenimento e lo sport dovranno potersi esprimere e manifestare, in tutte le stagioni dell’anno. I dispositivi-arredi urbani per il riscaldamento/condizionamento all’aperto dovranno essere ripensati.

La terza, relativa alla mobilità, prevede che le sezioni delle strade interne ai borghi urbani vengano ridisegnate per dar spazio ai dehors, ai pedoni e alle piste ciclabili. Quelle che scorreranno invece sul perimetro dei borghi potranno essere destinate ai trasporti pubblici di superficie, per un traffico sostenibile di vetture private.

La quarta, forse la più importante, riguarda l’aria delle nostre città. Dobbiamo intervenire drasticamente sulle polveri sottili che hanno creato un danno enorme nell’esporre migliaia di cittadini con fragilità polmonari agli effetti distruttivi del coronavirus. Il che significa intervenire subito sulle caldaie (pensando alle pompe di calore e a nuovi sistemi di riscaldamento e di scambio termico come quello con le fognature o i centri-data) e sui vettori privati, accelerando il passaggio ad una mobilità che non utilizzi combustibili fossili, ma energia elettrica o idrogeno.

La forestazione, ecco la quinta sfida, è per questo una necessità fondamentale: i boschi attorno alle città, e sistemi continui di alberature importanti al loro interno, puliscono l’aria assorbendo le polveri sottili, ombreggiano le zone pubbliche evitando riscaldamenti eccessivi, riducono la CO2. Migliorano la qualità della vita e della salute pubblica. L’obiettivo di 42 milioni di nuovi alberi nelle 14 aree metropolitane non solo è perseguibile, ma va avvicinato nel tempo e superato, arrivando a pensare che nei prossimi anni sia urgente piantare almeno 130 milioni di alberi, due per ogni abitante del nostro Paese

A proposito della prima sfida, quella della de-sincronizzazione, sono ottimista. Penso che l’abitudine a un tempo suddiviso in due giorni di festa e cinque di lavoro sarà presto messa in discussione. Durante il lockdown abbiamo infatti vissuto non solo una gigantesca complicazione, ma anche l’opportunità di pensare a un ciclo spazio temporale settimanale diverso, dove probabilmente si lavorerà molto più da casa e i corpi si sposteranno meno in città e sul territorio.

Gli stessi ritmi vitali cambieranno: nel momento in cui potrò lavorare in un’azienda o in una scuola tre giorni alla settimana invece che cinque, potrò infatti modificare anche il mio ciclo settimanale di residenzialità.

Le scuole potranno meglio essere aperte anche nelle ore pomeridiane e serali. E gli uffici vedranno una veloce evoluzione: saranno usati in modo meno intenso nello spazio e più esteso nel tempo. Questo già oggi succede: è il caso della torre di Allianz a Milano, dove ogni desk ospita due persone che si alternano. Noi stessi a Milano stiamo ragionando sull’utilizzare solo computer portatili, con postazioni che sono in numero molto ridotto rispetto al numero dei progettisti, e su settimane lavorative che prevedono solo tre giorni in studio. Decisioni delicate, ma potenzialmente virtuose.

Intervenire subito sugli spazi e i comportamenti quotidiani di chi abita le nostre città è dunque opportuno, oltre che possibile. Ma ci vogliono coraggio, costanza e gradualità. L’esempio di Londra, che qualche giorno fa ha trasformato in ciclabili e pedonali alcune delle più importanti arterie urbane, ha addirittura esteso la Congestion Charge e aumentato il prezzo degli ingressi, è indicativo.

Un’ultima grande sfida, che riguarda l’intero Paese, è quella di riabitare le migliaia di borghi abbandonati sparsi nelle campagne e sulle pendici delle Alpi o della dorsale appenninica.

In parallelo al ridisegno delle città secondo la logica dei borghi urbani e della forestazione, credo sia infatti giunto il momento di lanciare una grande campagna nazionale per riabitare i piccoli centri urbani delle aree interne, che nel passato – in Italia, Francia, Germania, Spagna – hanno presidiato il territorio europeo.

Dobbiamo far di tutto affinché il desiderio, comprensibile, di uno stile di vita diverso, più salubre e prossimo alla natura non si risolva, come negli anni ’80, con la dispersione nel territorio di migliaia di nuove villette e palazzine; quell’edilizia diffusa, solitaria e ammassata che ha trasfigurato il paesaggio italiano.

Ripopolare i borghi storici significa invece poter ritornare a vivere quella condizione di densità di spazi che, sola, crea una comunità urbana, ma cambiando al loro interno la dimensione e l’ampiezza degli spazi domestici e godendo di un rapporto straordinario con la natura e il paesaggio.

Non si tratta dunque di un progetto nostalgico di recupero della dimensione campestre. Ma di un progetto contemporaneo di investimento economico e sviluppo demografico di una parte dimenticata del nostro territorio. I borghi vanno ripensati – soprattutto negli spazi interni – perché sono, oggi, luoghi che hanno potenzialità eccezionali.

Nel momento in cui alcuni di noi potranno disporre di quattro o cinque giorni continui di possibile permanenza fuori da una grande città, sarà più conveniente pensare di spostare la propria residenza in un luogo immerso in un paesaggio straordinario, dove grazie alla banda larga si godrà di una condizione di connettività totale e di quella autosufficienza di servizi di prossimità al cittadino che in città va spesso totalmente ricostruita.

Non si tratta dunque di ipotizzare una seconda casa o un turismo temporaneo, ma un vero e proprio progetto di riforma dei borghi storici, che ne ricostruisca l’autenticità degli stili di vita, prima che l’identicità delle forme. Ma questo potrà avvenire solo grazie a un Contratto di Reciprocità con le città più vicine. Che dovranno agire in collaborazione, non in competizione.

C’è un enorme debito – pensiamo all’acqua potabile, all’aria pulita, al cibo di qualità, al legno degli arredi – che le città hanno maturato verso le aree interne e i loro piccoli insediamenti.

È arrivato il momento di compensare questo debito con un grande progetto di economia circolare che permetta a chi si sposta a vivere nei borghi storici – sia egli un agricoltore, un intellettuale, un artigiano – di essere stabilmente inserito nei bacini di utenza metropolitani. E di vedere ancora ampliato il debito straordinario che avremo verso chi – riabitando i piccoli centri e i borghi – si prenderà cura di un’agricoltura di qualità, dei boschi, del mare, dei laghi, delle coste, del paesaggio ancora bellissimo del nostro Paese.

Non abbiamo bisogni di nuovi presepi, ma di piccole città attive, a presidio di un territorio ancora straordinario. Che potrebbe diventare ancora più attraente e attrattivo per un turismo che nei prossimi anni si dirigerà sempre più verso la ricerca dell’autenticità dei luoghi e dei paesaggi.

Questa radicale riforma dello spazio abitabile si legherebbe infine alla grande sfida di realizzare “Parco Italia”: un sistema di Corridoi Ecologici che attraverserebbero da Nord a Sud, da Est a Ovest la Penisola, unendo i parchi e le aree protette esistenti, le aree boschive e forestali, la costellazione rinnovata dei piccoli centri e quelle aree urbane e metropolitane che riusciranno a vincere la sfida della forestazione urbana.

Proviamoci.

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