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Edvard Munch, l’arte del dipingere l’essenziale

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A monte di tutta la carriera del genio pittore, alla base della vicenda artistica di Edvard Munch, insomma per avere un’idea della pittura di questo grande artista, è necessario dare uno sguardo accurato alla situazione individuale familiare e all’ambiente della capitale norvegese dove visse fino al 1924 quando ancora si chiamava Cristiania. Malattia e morte segnano la giovinezza dell’artista, soprattutto quella della sorella quindicenne. Edvard, appena quattordicenne, assiste in piena consapevolezza al lento declino che porterà alla triste fine la vita della sorella. Da piccolo aveva perso la mamma e in successione il padre. Una vita adolescenziale costernata di lutti. Dirà in seguito: “Senza paura e malattia, la mia vita sarebbe una barca senza remi”.

Edvard Munch

E’ chiaro che al di là dell’aspetto puramente luttuoso, tali situazioni è come se lo avessero costretto a prendere posizione di fronte alla morte o meglio, di fronte alla vita. Una ricerca di senso, una riluttanza al banale, al superfluo; in contemporanea un’ardente desiderio di compiere la propria vita e la pittura ben presto diventa uno strumento formidabile per descrivere questo stato d’animo: “Dipingevo linee e colori che colpivano il mio occhio interiore. Dipingevo usando la mente, senza aggiungere alcunché, senza i particolari che, intorno, avevo smesso di osservare. Questa è la ragione della semplicità dei dipinti, della loro evidente vacuità. Ho dipinto le impressioni della mia infanzia, i tristi colori di giorni dimenticati”. “Senza paura e malattia… come se il suggerimento, la costrizione, la tremenda costrizione a prendere coscienza di ciò che gli accadeva, la dura realtà che gli si sbatteva in faccia era il segno di un evidente oltre. La vita non poteva finire lì. Non poteva essere una tragica successione di eventi negativi.

Di fronte alle diverse rappresentazioni di opere d’arte che avevano a tema la morte dirà: Sono convinto che difficilmente uno di questi pittori avrà assaporato fino in fondo il suo tema come ho fatto io in “la bambina malata”. Non ero soltanto io a sedere lì, bensì tutti i miei cari”. A tema era il suo dolore non quello lontanamente percepito da suoi pur illustri colleghi.

“Dipinge, o piuttosto, osserva le cose diversamente dagli altri artisti. Ha occhi solo per l’essenziale e naturalmente dipinge solo questo. Ecco perché i quadri di Munch non sono di regola finiti, come la gente si compiacerebbe di constatare. Ma certo che lo sono: la sua opera completa, l’arte è completa quando l’artista ha detto veramente tutto quanto aveva dentro di sé”, scrive Krohg.

Per rendere comprensibile l’ampia impostazione artistica che fa da sfondo all’opera completa di Munch è necessario risalire al mondo della letteratura. Nei temi dei suoi quadri ritroviamo facilmente riferimenti a Shakespeare, Flaubert, James Joyce. Come nel “Fregio della vita”, ma anche successivamente nei “Chiari di luna” o nella “Donna in tre fasi” dove richiama i drammi di Ibsen. “La mia arte è in realtà una confessione fatta spontaneamente, un tentativo di chiarire a me stesso in che relazione sto con la vita…E’ fondamentalmente una specie di egoismo, ma non perdo la speranza che grazie ad essa riuscirò ad aiutare altri a vedere più chiaro”.

Ma la maturità dell’artista è raggiunta, cosi come la sua piena notorietà, nei due quadri Sera sulla via Karl Johann e nell’Urlo dove, pare, si sia ispirato, nella sua forma, ad una mummia peruviana conservata al Museo del Louvre. Mentre nel primo quadro i temi sono suggeriti dalla paura e dalla solitudine rivelati in una passeggiata in mezzo ad una folla estranea, nell’Urlo l’artista ripropone l’uomo da solo con la sua paura in una natura che non consola, ma che amplifica quel grido fino al cielo rosso sangue. Munch stesso ha lasciato in merito degli appunti nel suo diario, stesi in un momento successivo mentre era malato a Nizza: “Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue, mi fermai, mi appoggiai stanco morto al recinto, sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco, i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”.

Un urlo pervadeva la natura di Oslo, la natura tutta, la sua natura. Era il grido perché la natura non corrispondeva alla sua domanda di vita, al suo desiderio di abbracciare la vita. Una non corrispondenza che in qualche modo, qualche anno prima aveva portato al suicidio Van Gogh.

Vengono alla mente le parole di O. Vladislav Milosz quando nel Miguel Manara scrive:” Certo, nella mia giovinezza, sono andato, proprio come voi, in cerca della miserabile gioia, dell’irrequieta straniera che vi fa dono della sua vita e non vi dice il suo nome… una bellezza nuova, un nuovo dolore, un nuovo bene di cui presto saziarsi, per meglio assaporare il vino di un nuovo male, una nuova vita, un’infinità di nuove vite, ecco cosa mi occorre signori: semplicemente questo e null’altro. Ah! Come colmarla questa voragine della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre presente, più forte, più pazzo che mai. E’ come un incendio del mare, che avventi la sua fiamma dove maggiore è la profondità del nero nulla universale. E’ un desiderio di abbracciare le possibilità infinite! Ah Signori! Che cosa facciamo, noi, qui? Che cosa guadagniamo, qui?”.

Quando è di fronte alla realtà, l’uomo è di fronte a un mistero; e di fronte al mistero l’uomo si sente umile, piccolo, senza pretesa, senza presunzione. Ma deve fare un altro passo: gridare!

Munch ha gridato non solo nel suo quadro ma nella sua vita (pare ne abbia realizzate ben 52 copie). Un urlo che racchiude tutto il suo tormento, tutto il suo apparente disgusto per la vita, tutto il suo legame per la vita, ma è anche l’urlo della percezione del limite stesso della vita terrena, del limite dell’uomo e del suo instancabile bisogno di urlare al mondo intero la voglia di vivere. Un urlo di dolore ma denso di desiderio di bene.

Innocenzo Calzone

 

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